Si potrebbe definire la biblioterapia un tentativo di vaccinazione al male di vivere. Ci curiamo inoculando delle dosi controllare di situazioni e possibilità.
La chiamiamo letteratura per ragazzi, ma è un’etichetta che non ha senso. Bamboleggia assai meno di quella per adulti, non racconta storie edificanti, se è autentica, e mette in burla la società con molta più ferocia. Si prende gioco del potente e del prepotente, e in definitiva restituisce al più debole quello che la vita non gli concede mai.
La lettura scatena nel nostro cervello una ininterrotta tempesta chimica: ci fa percepire il timbro delle voci dei protagonisti, ci allena a pensare per immagini, coinvolge tutte le nostre emozioni e perfeziona quel complesso sistema solare che riassumiamo nei cinque sensi. E questo semplicemente interpretando dei segni convenzionali, delle macchie scure stampate su una pagina.
Una volta, un bambino di Lampedusa mi ha detto che un libro può somigliare a tante cose: a un’isola, a una teiera, a una zattera. Ma che si apre sempre come un abbraccio.
Se si considera quanto sia recente l’invenzione dell’alfabeto (cinquemila anni appena) e che non esiste nessun altro animale in natura capace di leggere, non c’è niente più di un libro aperto sulle gambe che affermi la nostra umanità.
Sono convinto che il primo personaggio di romanzo in cui ci si imbatte da bambini condiziona la nostra vita quanto i nostri familiari o il miglior amico. Avviene con lui una sorta di imprinting fantastico e si finisce involontariamente per assomigliargli, allo stesso modo in cui si somiglia ai propri genitori.